La ricerca del corpo magro dell’anoressica e la passione per il cibo della bulimica
Parliamo di disturbi alimentari, ovvero quelle malattie in cui la capacità di nutrirsi diventa disordinata e ossessiva perché specchio di una sofferenza intima, profonda e antica, nel senso che ha radici nell’infanzia di queste persone, e nel modo in cui hanno deciso di costruire la propria individualità. Si tratta di una sofferenza muta, non ci sono parole per esprimerla perché troppo forte e dolorosa, e allora è il corpo che parla, che la esprime, che la urla.
Si tratta di disturbi molto diffusi, si stima che in Italia circa 2 milioni di giovani ne sarebbero interessati, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le patologie di tipo anoressico e bulimico rappresentano, tra gli adolescenti, la seconda causa di morte dopo gli incidenti di strada. Molto si scrive su questi disturbi e molto viene fatto, eppure queste patologie rappresentano ancora una sfida aperta per la terapia.
L’impotenza della medicina e di certa psicoterapia nella cura dell’anoressia-bulimia dipende dal fatto che il malato da curare non è l’appetito, ci si sforza di normalizzare una funzione alterata, di riequilibrare il rapporto tra la persona e il suo senso di fame e di sazietà e le sue abitudini alimentari. Si fallisce perché la causa del disturbo alimentare non è organica, non si tratta di una alterazione di una funzione normale, quella dell’appetito appunto.
Ci troviamo di fronte ad una persona che si rifiuta di mangiare nonostante la fame, una fame che è divorante; o ad una persona che mangia e vomita fino a 20 volte al giorno o che si riempie lo stomaco di cibo fino a sentirsi scoppiare. Tutto questo non può essere spiegato solo come una alterazione del comportamento alimentare. È un fenomeno terribile ed enigmatico ed estremamente complesso.
Queste patologie gettano ogni terapeuta nello sconforto perché sono una chiara espressione di come la persona è orientata alla ricerca di quello che fa male, si affanna per cercare un godimento che non coincide con il suo bene ma che si rivela distruttivo e devastante. Un piacere che obbliga la persona ad una nuova schiavitù. La terapia deve capire come sia possibile contrastare questo piacere della privazione. L’anoressica non considera il suo comportamento come una malattia, da qui la sua forza e tenacia. La bulimica, invece, soffre terribilmente per il suo stato, ma attribuisce la causa della sua sofferenza al cibo, è il cibo che la fa soffrire. In questi casi sembra che non ci sia nulla per cui andare oltre, tutto è molto evidente: tutto ruota attorno al cibo e al peso, sembra che tutti inizi e finisca qui. In realtà c’è molto altro che viene tenuto tenacemente nascosto dalla malattia, per questo, se si vuole avere una qualche efficacia terapeutica bisogna rompere questa certezza che tutto dipenda da un problema di peso o con il cibo. Con queste pazienti la parte più difficile è portarle a parlare di sé, non del cibo, non del peso, tenendo sempre a mente i pericoli e i rischi di questa malattia, che devono essere sempre presenti nella mente del terapeuta.
L’anoressia funziona come una vera e propria cura, una cura autosomministrata che la ragazza ha inventato per fronteggiare un proprio malessere di fondo, un malessere che di solito emerge prima della pubertà e dell’adolescenza in giovani ragazze che si trovano smarrite di fronte al compito della crescita e della separazione dai genitori. Sono ragazze che lottano costantemente contro la paura di essere schiavizzate, di diventare dipendenti e sottomesse ma che allo stesso tempo sentono di non essere in grado di affrontare la vita. Sono alla ricerca della propria identità e autonomia e per questo rifiutano qualsiasi aiuto, supporto, nutrimento da parte degli altri.
Il frenetico bisogno di controllare il corpo e il bisogno della fame deve essere visto alla luce del senso di impotenza di fronte alla vita. Si sentono meglio quando vedono la loro pancia piatta, quando vincono la fame perché riacquistano il controllo sulla propria vita. La bulimica desidera avere questo controllo, ma non ci riesce, cede e questo apre al profondo senso di fallimento che conferma la sua incapacità di avere un controllo sui propri desideri e in definitiva sulla propria vita: tutto sfugge al suo controllo.
DA DOVE NASCE IL DISTURBO ALIMENTARE?
Spesso si è spiegata l’origine di questa malattia legata a un rapporto disturbato con la madre, vissuta come presenza invadente o al contrario assolutamente indifferente. È vero che in molte pazienti anoressiche e bulimiche è presente un rapporto di questo tipo, ma non deve essere preso come dato assoluto altrimenti si rischia di colpevolizzare il ruolo della madre, come se fosse l’unica responsabile della malattia della figlia. Bisogna ricordare che la madre è anche moglie, che nell’ambiente familiare è presente la figura del padre, ed è presente la relazione moglie-marito: spesso nelle famiglie di queste pazienti si ritrovano difficoltà relazionali nella coppia genitoriale. La patologia alimentare diventa in questi sistemi familiari l’unica via possibile per non entrare in contatto con le problematiche invischianti dei genitori.
Quella della figlia è una sofferenza muta e non consapevole, che non può esprimersi con le parole e allora usa la via drammatica del corpo, attraverso l’oggetto più fondamentale per la sopravvivenza: il cibo.
Si tratta di una patologia che si manifesta durante l’adolescenza, questo perché la ragazza entra in una fase particolare dove rivendica il proprio diritto di esserci come persona che ha una propria mente, un proprio corpo. Non è più la bambina dei suoi genitori, non è più come il genitori la immaginavano. In questa fase rivendica il proprio diritto all’individualità e autonomia, solo che nell’anoressica questo diritto sacrosanto viene messo in pratica attraverso il rifiuto del cibo.
È frequente nelle storie di queste ragazze l’immagine della bambina buona, perfetta, che dice sempre si, la figlia amabile. Nell’adolescenza questo sì viene capovolto nel suo opposto, in no! a oltranza. È un modo per separarsi dalla famiglia, anche se è un modo patologico. È come se il digiuno e il rigore fossero un mezzo per ottenere qualcosa di speciale, come essere viste, ascoltate, considerate uniche e meravigliose agli occhi degli altri. Molte pazienti raccontano di aver trascorso la vita a soddisfare gli altri, le loro aspettative e desideri, sempre con la paura di deludere i genitori, il timore di essere meno brave di altre e per questo deludenti agli occhi dei genitori. Vivono nel terrore costante di essere come le altre, di essere nella media, mentre loro ambiscono alle mete più elevate, alla perfezione. Per questo si costringono ad alte prestazioni scolastiche, a primeggiare nello sport, a lavorare sodo, a vincere la fame: per essere perfette, ovvero al di sopra di ogni possibile critica e giudizio negativo.
Una caratteristica comune a molte ragazze è il fatto di non essere stata riconosciuta in famiglia come persona autonoma, ma era stata apprezzata soprattutto come colei che avrebbe reso la vita e le esperienze dei genitori più complete e soddisfacenti. Qui inizia quel dover rendersi speciali e capaci agli occhi del mondo, che si associa anche alla paura di non essere abbastanza capaci, di non riuscire a emergere. Inoltre, crescendo abituate a rispondere alle richieste degli altri, alle aspettative degli altri queste ragazze non sanno e non possono sapere quali siano i loro reali bisogni, desideri, in definitiva non sanno chi sono. Questo senso di smarrimento si estende anche al corpo, non sentono di guidare il proprio corpo e le proprie azioni, anzi lo vivono come se questo corpo non fosse di loro proprietà.
L’ESSERE ANORESSICA-BULIMICA
Queste ragazze soffrono drammaticamente perché sono convinte di non essere capaci in nulla, di non essere padrone della loro vita e dei rapporti con gli altri. Sono estremamente confuse su ciò che provano, non solo come sentimenti ma anche come sensazioni corporee, a volte non sanno se ciò che provano venga da loro stesse o dagli altri. È un vissuto terribile, una perdita totale di controllo di se stessi che non può essere sostenuta. Nel loro passato hanno mostrato un’eccessiva sottomissione, una mancanza di autoaffermazione; sono immature rispetto al loro senso di autonomia e per questo hanno difficoltà nell’arrivare a un proprio giudizio e a opinioni proprie. Avendo sempre fatto ciò che erano addestrate a fare, a rispondere alle richieste degli altri, non si sono messe alla prova e quindi non possono sapere quanto valgono e cosa sono capaci di fare.
La dieta, la fissazione di essere magra o grassa è solo una cortina fumogena. Non è questa la malattia. La malattia si trova nei sentimenti che queste ragazze provano verso loro stesse: sono terrorizzante dal non essere abbastanza brave, di non essere in grado di fare le cose che ci si aspetta da loro, di non essere abbastanza in gamba. Questa insicurezza è devastante, e allora bisogna trovare un modo per metterla a tacere e trovare un modo per sentirsi capace, la dieta diventa il mezzo utile per tutto questo.
La restrizione alimentare diventa un modo per sentirsi diversi, cominciano a sentirsi in gamba attraverso la malattia. Si negano il cibo per sentirsi bene, ma il cibo ha anche il vantaggio di coprire tutto il resto: rimanendo concentrata sulle pratiche alimentari, sul controllo del cibo, dell’esercizio fisico come anche delle pratiche di vomiting e l’uso di lassativi, tutto questo riempie la mente e non permette di prendere contatto con i vissuti dolorosi di incapacità, incompetenza, scarsa autonomia, dipendenza che vivono nel profondo della loro intimità.
Vivono nella credenza di essere meritevoli di amore solo se fanno qualcosa di eccezionale, qualcosa di grandioso che possa impressionare i genitori e le altre persone significative, per poter essere considerata e ammirata.
ANORESSIA-BULIMIA
Recalcati parla da anni di una continuità di fondo tra anoressia e bulimia, considerandole due facce della stessa medaglia, due facce solo apparentemente opposte (l’anoressica non mangia niente, la bulimica mangia tutto). Questa continuità si osserva nel decorso della malattia, che in genere inizia sempre con una fase restrittiva che può sfociare in una vera e propria anoressia. In questa fase, la ragazza si sente forte e potente perché è riuscita a vincere la fame, per cui non ha bisogno di nulla, non le servono gli altri lei basta a se stessa. Si tratta di, una fase difficile da mantenere nel tempo per cui accade che alla determinazione di non mangiare si passi all’opposto, alla disperazione della bulimica. La bulimia è il fallimento del progetto anoressico, per questo la ragazza bulimica vive un costante senso di depressione, indegnità, senso di colpa. Qui inizia quell’alternanza tra anoressia e bulimia che getta la persona in un vortice pericoloso e doloroso fatto di impegni insostenibili e fallimenti catastrofici, gettando la persona nello sconforto più nero.
COMPITO DELLA TERAPIA
Compito della psicoterapia nell’anoressica è di aiutare la paziente nella sua ricerca di un’autonomia e di una identità, è un tentativo di correggere i difetti del pensiero concettuali e le distorsioni, il profondo senso di insoddisfazione e di isolamento, nonché la convinzione di non essere buone a nulla.
Alla base, ciascuna anoressica è convinta che la sua personalità sia difettosa, grossolana, insufficiente, la feccia della terra, e tutti i suoi sforzi, il digiuno, i buoni voti, il vomito mirano a nascondere la sua fondamentale inadeguatezza. E’ convinta che tutti coloro che la circondano, la famiglia, gli amici e il mondo in genere, la guardino con disapprovazione e disgusto e siano pronti a saltarle addosso per criticarla. La terapia deve mostrare il carattere erroneo di queste convinzioni, e permetterle di vedere il proprio valore, la propria essenza senza dover ricorrere all’impalcatura della perfezione.
Le anoressiche si oppongono al trattamento per principio. Nella loro estrema magrezza credono di aver trovato la soluzione perfetta dei loro problemi, pensano di poter ottenere così il rispetto che è loro mancato per tutta la vita. Non si lamentando della loro condizione, al contrario, se ne vantano, eppure, si rendono conto che c’è qualcosa di sbagliato nel loro modo di vivere la vita e hanno bisogno di aiuto nella loro infelicità.
L’impegno terapeutico con queste giovani è difficile, lento e a volte esasperante. In un certo senso debbono costruirsi una nuova personalità, dopo tanti anni di esistenza finta. Il fatto che il compito terapeutico sia difficile non equivale a dire che sia impossibile. È un lavoro lungo, che non può essere fatto da soli, bisogna appoggiarsi a medici, nutrizionisti, psichiatri, bisogna lavorare con la famiglia. Si tratta di un lavoro lento e lungo nel tempo.
Per approfondimenti vi consiglio:
-Massimo Recalcati “Elogio del fallimento. Conversazioni su anoressie e disagio della giovinezza”. Erickson.
– Hilde Bruch “La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale”. Feltrinelli.
– Fabiola De Clercq “Tutto il pane del mondo”. Bompiani.
-Isabelle Caro “La ragazza che non voleva crescere”. Cairo editore.